CHE LA PACE SIA DAVVERO CON TUTTI

di Domenico PALAZZO

Nel mondo cattolico, “che la pace sia con voi” è la formula che accompagna il momento che precede la lettura del Vangelo, un invito solenne alla riconciliazione. Molti lettori la ricorderanno con chiarezza, pronunciata in chiesa come augurio e promessa. Ma oggi, in un mondo lacerato da guerre sempre più brutali e da un’assuefazione crescente alla violenza, quelle parole suonano quasi fuori posto, fragili. Parlare di pace può sembrare un gesto ingenuo, addirittura inopportuno. E invece è proprio oggi che la pace è più che mai necessaria, urgente, ma soprattutto giusta: non un silenzio imposto dalle armi, non una tregua sopra le rovine dell’umanità, ma un percorso di verità, giustizia e riconoscimento reciproco.

Lo gridano le immagini che ci giungono ogni giorno da Gaza, dove i bombardamenti israeliani hanno ucciso oltre 35 mila persone, più della metà donne e bambini. Lo urla il dramma dell’Ucraina, dove due eserciti si affrontano su una terra devastata, in un conflitto che l’Occidente continua ad alimentare con armi e retorica. E lo testimonia anche l’Iran, teatro di un autoritarismo che schiaccia ogni dissenso, con i bombardamenti da parte di Israele che rischiano di incendiare l’intero Medio Oriente se non il mondo intero. 

In questo scenario cupo, le parole del cardinale Matteo Zuppi risuonano con forza: “La pace non è solo l’assenza di guerra, è la costruzione della giustizia. E non ci sarà giustizia se non riconosceremo tutti come uguali”. Un principio semplice, ma rivoluzionario. 

Oggi l’eguaglianza è la grande assente. Lo è nei rapporti internazionali, dove il diritto sembra valere solo per alcuni. Lo è nella narrazione mediatica, che distingue vittime “di serie A” e “di serie B”. Lo è nella politica, dove prevale la logica del nemico, dell’emergenza, del nemico da colpire.

Lo sanno bene anche i leader di Alleanza Verdi e Sinistra, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, che da mesi invocano un cambio radicale di rotta. “Chiedere il cessate il fuoco immediato a Gaza non è equidistanza – ha dichiarato Fratoianni – è il minimo umano e politico che si possa fare davanti al massacro di civili. Non si può invocare la pace senza denunciare i crimini, senza riconoscere il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione”. Bonelli aggiunge: “L’Italia dovrebbe stare dalla parte del diritto internazionale, non diventare complice di chi lo calpesta. La pace si costruisce solo se si smette di armare i conflitti”.

Questa visione mette al centro un principio spesso sacrificato: la responsabilità collettiva. Non esiste pace che si possa costruire a colpi di droni, né sicurezza che si possa garantire con i missili. Continuare a parlare di “guerre giuste” o “interventi necessari” significa alimentare una spirale che cancella l’umanità, rende ciechi al dolore degli altri e prepara nuove vendette.

L’eguaglianza non è solo un concetto astratto. È ciò che ci costringe a guardare il bambino palestinese e quello ucraino con gli stessi occhi, a riconoscere la madre iraniana che piange il figlio giustiziato come nostra sorella. È ciò che ci impone di chiedere conto a chi oggi ha il potere di fermare le guerre ma sceglie l’inazione o, peggio, il profitto. Perché il mercato delle armi non conosce tregua, e mentre si afferma che “non c’è alternativa”, i bilanci militari crescono, i corridoi umanitari si chiudono, i corpi si accumulano.

Parlare di pace oggi sembra una mera utopia ma non c’è nulla di più lucido, di più urgente e razionale del rifiuto della guerra come strumento politico. È una posizione profondamente necessaria, perché guarda lontano, oltre il fumo delle bombe e i confini nazionali. È una posizione che rifiuta l’ipocrisia di chi piange per i morti da una parte, ma tace quando i cadaveri non servono la propaganda.

In fondo, la domanda che dovremmo farci è molto semplice: quale mondo stiamo costruendo? Quali valori vogliamo trasmettere? Se il nostro silenzio copre le grida dei bambini sotto le macerie, se il nostro equilibrio diplomatico è pagato con sangue innocente, se la nostra neutralità diventa complicità, allora non stiamo costruendo pace, ma solo un’altra forma di dominio.

Primo Levi scriveva, pensando alla sua esperienza ad Auschwitz: “Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo.”

Oggi, cosa direbbe Levi davanti al volto sfigurato di un bambino palestinese? Cosa scriverebbe dopo aver visto le file di bambini ucraini mutilati, i corpi insepolti di Rafah, le proteste represse in Iran, i palazzi distrutti a Tel Aviv? A chi dedicherebbe la sua poesia se non a quei corpi dimenticati, a quei volti senza nome, che gridano ancora: se questo è un uomo?

Non possiamo sapere con certezza cosa direbbe Levi, ma possiamo – dobbiamo – provare a rispondere a quella domanda. Perché la memoria non basta più. Serve coraggio. Serve empatia. Serve una politica che torni a scegliere la vita.

  • Domenico Palazzo è nato a Campobasso il 2 settembre 1984; Guardiese dalla nascita, Termolese d’adozione dal 1998. Ha vissuto a Bologna e nel 2011 è tornato a vivere a Termoli, con una breve parentesi milanese. È laureato in chimica e tecnologia farmaceutiche. Ha lavorato in azienda fino al 2019, ricoprendo ruoli di direzione. Ad oggi insegnante di Scienze Naturali specializzato sul sostegno. Consigliere Federale di Europa Verde per il Molise, pubblica sul periodico L’Eguaglianza.

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