Nel mondo cattolico, “che la pace sia con voi” è la formula che accompagna il momento che precede la lettura del Vangelo, un invito solenne alla riconciliazione. Molti lettori la ricorderanno con chiarezza, pronunciata in chiesa come augurio e promessa. Ma oggi, in un mondo lacerato da guerre sempre più brutali e da un’assuefazione crescente alla violenza, quelle parole suonano quasi fuori posto, fragili. Parlare di pace può sembrare un gesto ingenuo, addirittura inopportuno. E invece è proprio oggi che la pace è più che mai necessaria, urgente, ma soprattutto giusta: non un silenzio imposto dalle armi, non una tregua sopra le rovine dell’umanità, ma un percorso di verità, giustizia e riconoscimento reciproco.
Lo gridano le immagini che ci giungono ogni giorno da Gaza, dove i bombardamenti israeliani hanno ucciso oltre 35 mila persone, più della metà donne e bambini. Lo urla il dramma dell’Ucraina, dove due eserciti si affrontano su una terra devastata, in un conflitto che l’Occidente continua ad alimentare con armi e retorica. E lo testimonia anche l’Iran, teatro di un autoritarismo che schiaccia ogni dissenso, con i bombardamenti da parte di Israele che rischiano di incendiare l’intero Medio Oriente se non il mondo intero.
In questo scenario cupo, le parole del cardinale Matteo Zuppi risuonano con forza: “La pace non è solo l’assenza di guerra, è la costruzione della giustizia. E non ci sarà giustizia se non riconosceremo tutti come uguali”. Un principio semplice, ma rivoluzionario.
Oggi l’eguaglianza è la grande assente. Lo è nei rapporti internazionali, dove il diritto sembra valere solo per alcuni. Lo è nella narrazione mediatica, che distingue vittime “di serie A” e “di serie B”. Lo è nella politica, dove prevale la logica del nemico, dell’emergenza, del nemico da colpire.
Lo sanno bene anche i leader di Alleanza Verdi e Sinistra, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, che da mesi invocano un cambio radicale di rotta. “Chiedere il cessate il fuoco immediato a Gaza non è equidistanza – ha dichiarato Fratoianni – è il minimo umano e politico che si possa fare davanti al massacro di civili. Non si può invocare la pace senza denunciare i crimini, senza riconoscere il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione”. Bonelli aggiunge: “L’Italia dovrebbe stare dalla parte del diritto internazionale, non diventare complice di chi lo calpesta. La pace si costruisce solo se si smette di armare i conflitti”.
Questa visione mette al centro un principio spesso sacrificato: la responsabilità collettiva. Non esiste pace che si possa costruire a colpi di droni, né sicurezza che si possa garantire con i missili. Continuare a parlare di “guerre giuste” o “interventi necessari” significa alimentare una spirale che cancella l’umanità, rende ciechi al dolore degli altri e prepara nuove vendette.
L’eguaglianza non è solo un concetto astratto. È ciò che ci costringe a guardare il bambino palestinese e quello ucraino con gli stessi occhi, a riconoscere la madre iraniana che piange il figlio giustiziato come nostra sorella. È ciò che ci impone di chiedere conto a chi oggi ha il potere di fermare le guerre ma sceglie l’inazione o, peggio, il profitto. Perché il mercato delle armi non conosce tregua, e mentre si afferma che “non c’è alternativa”, i bilanci militari crescono, i corridoi umanitari si chiudono, i corpi si accumulano.
Parlare di pace oggi sembra una mera utopia ma non c’è nulla di più lucido, di più urgente e razionale del rifiuto della guerra come strumento politico. È una posizione profondamente necessaria, perché guarda lontano, oltre il fumo delle bombe e i confini nazionali. È una posizione che rifiuta l’ipocrisia di chi piange per i morti da una parte, ma tace quando i cadaveri non servono la propaganda.
In fondo, la domanda che dovremmo farci è molto semplice: quale mondo stiamo costruendo? Quali valori vogliamo trasmettere? Se il nostro silenzio copre le grida dei bambini sotto le macerie, se il nostro equilibrio diplomatico è pagato con sangue innocente, se la nostra neutralità diventa complicità, allora non stiamo costruendo pace, ma solo un’altra forma di dominio.
Primo Levi scriveva, pensando alla sua esperienza ad Auschwitz: “Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo.”
Oggi, cosa direbbe Levi davanti al volto sfigurato di un bambino palestinese? Cosa scriverebbe dopo aver visto le file di bambini ucraini mutilati, i corpi insepolti di Rafah, le proteste represse in Iran, i palazzi distrutti a Tel Aviv? A chi dedicherebbe la sua poesia se non a quei corpi dimenticati, a quei volti senza nome, che gridano ancora: se questo è un uomo?
Non possiamo sapere con certezza cosa direbbe Levi, ma possiamo – dobbiamo – provare a rispondere a quella domanda. Perché la memoria non basta più. Serve coraggio. Serve empatia. Serve una politica che torni a scegliere la vita.