Sinistra era un tempo sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale.
Chi era di sinistra credeva nella capacità della politica di cambiare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato. Anche di fronte alle grandi differenze anche tra i sostenitori della sinistra, una cosa era chiara i partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati. Invece la sinistra attuale è costituita dai ceti colti e internazionalisti, perché fautori della globalizzazione finanziaria allo stesso modo delle destre liberali, che sostengono cioè le politiche antisociali, come molti partiti conservatori senza alcuna differenza tangibile, esempi concreti di questa sinistra, o meglio centrosinistra [1] più di centro che di sinistra, perché sono sempre più partiti che propongono politiche centriste, sono stati Macron, in Francia, e Renzi, in Italia. In entrambi i casi abbiamo avuto, nell’azione di governo, politiche indiscutibilmente, dal punto di vista fattuale, pro-ricchi, riuscendo ad indebolire le classi medie: In Francia, ad esempio, l’abolizione dell’imposta sul patrimonio; In Italia, con il governo Renzi, abbiamo avuto l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che garantiva i lavoratori dipendenti dall’ingiusto licenziamento [2], con gravi conseguenze sulla fiducia delle classi popolari nell’operato della sinistra politica.
Abbiamo avuto in questi ultimi decenni una presunta «Sinistra intellettuale benestante» e una «destra mercantile» – scrive Piketty – che incarnano valori ed esperienze in qualche modo complementari. E condividono anche non pochi tratti comuni, a cominciare da una certa dose di ‘conservatorismo’ di fronte all’odierna situazione di disuguaglianza. Sono evidenti le ragioni che hanno portato una parte crescente dei gruppi sociali svantaggiati a sentirsi scarsamente rappresentati (o addirittura abbandonati) dalla sinistra che ha anche governato, per molti anni, in molte nazioni europee favorendo, solo ed esclusivamente, le elitarie classi sociali più benestanti. Della stessa opinione registriamo il parere di Sahra Wagenknecht, esponente della sinistra radicale tedesca, che ritiene i tipici rappresentante della sinistra liberale come: «Spocchiosi Arroganti. Ossessionati dal politically correct. Persuasi di stare sempre dalla parte del Bene, e di ciò che fa bene al pianeta» [3]. Inoltre esattamente come osserva Piketty la sinistra di governo, oltre ad essere neoliberale, è «Modaiola e arrogante, neoliberale e lontana dai suoi temi classici: salari, diritti, welfare» [4]. La Wagenknecht osservando la situazione tedesca dei nostri tempi, spiega con grande precisione perché la sinistra neoliberale abbia perso i voti della classe operaia, infatti rivela che: «nei quartieri più alla moda di Berlino, i figli dei professionisti e dei nuovi ricchi non incontrano più quelli del precariato; vanno a scuole diverse e i meno abbienti li vedono solo quando gli portano la posta o la cena».
Abbiamo di fronte una società globalizzata sempre più divisa a compartimenti stagni, come avevano già descritto dai sociologi Ulrich Beck e Zygmunt Bauman. Divisa da un lato fra chi la globalizzazione la cavalca, come gli accademici e i loro pupilli, «che vivono agiati e cullandosi nei loro stili di vita così verdi, ma vissuti come fossero dei dogmi, dei precetti autoritari». E, dall’altra parte, la larga fascia dei perdenti dell’era digitale, l’esercito del precariato e dei pensionati che, dopo aver sgobbato una vita, si ritrova a frugare nei cassonetti. Il resto, dalle crisi delle sinistre alla marea nera di destra che monta in mezzo mondo, è storia quotidiana. Conclude la Wagenknecht che «Non è vero dunque che nel 21° secolo la gente abbia virato a destra. Dal punto di vista socio-economico le masse richiedono più salario, diritti e welfare, i classici temi cioè di sinistra. Peccato solo che i partiti di sinistra siano sempre più orientati a politiche e atteggiamenti neoliberali», aggiunge: «È un fatto che le garanzie del welfare, i sistemi sociali e sanitari funzionino solo all’interno di uno Stato nazionale. E non possono essere estese, ecumenicamente, a tutti senza pregiudicarne le prerogative». Come la gestione statale nell’emergenza-virus ha drammaticamente mostrato [5].
Considerazioni simili le ha espresse il noto sociologo italiano Domenico De Masi che, senza mezzi termini, afferma che la sinistra liberale è responsabile dell’impoverimento delle classi sociali più povere e del declino della classe media. Infatti, con grande lucidità di analisi, sostiene che «nell’ultimo mezzo secolo i leader di sinistra hanno fatto a gara per disorientare i cittadini. Si pensi, ad esempio, agli esperimenti di “terze vie” alla Tony Blair o al Neue Mitte di Gerhard Schroeder. Ma in Italia il disorientamento è iniziato subito dopo la morte di Enrico Berlinguer, quando le sinistre caddero in un insano innamoramento per il neoliberismo considerato come salvifica modernizzazione. Se si pensa che, negli anni 90, quando Mario Draghi fu Direttore generale del Tesoro e presidente della Commissione per le privatizzazioni, la furia privatizzatrice contro le industrie di Stato e il settore pubblico non fu sferrata da leader neoliberisti come Berlusconi o Dini, ma da socialisti e comunisti come Amato e D’Alema, ci si rende conto del disorientamento in cui è stato via via trascinato il popolo di sinistra. Il capolavoro perverso, allora compiuto sotto l’accorta regia di Draghi, negli anni successivi si è ripetuto più volte, sotto altre regie meno raffinate. E si pensi al Pd che, per fare fede alla sua natura di sinistra, dovrebbe esibire con orgoglio un programma socialdemocratico e che invece fa sua l’agenda di un liberista come Draghi, dopo essere stato il massimo sostenitore del suo governo. De Masi paventa che le politiche economiche, pandemia e guerra legittimano l’ipotesi che almeno 12 milioni di italiani vivranno in condizioni penose. A essi vanno aggiunte le centinaia di migliaia di stranieri, clandestini e non, che subiscono uno sfruttamento sistematico. Ma la questione non riguarda solo i poveri. Anche molti giovani e meno giovani che superano la soglia della povertà vivono in uno stato di precarietà perenne, imposta dalla politica economica neo-liberista che della precarietà e del rischio diffusi ha fatto i suoi principi fondamentali.
Dunque se i partiti di sinistra non intercettano i voti delle classi popolari, dei precari e degli emarginati, che aumentano sempre di più, vuol dire che non funzionano gli apparati e i rappresentanti dei partiti che dicono di essere di sinistra ma hanno chiaramente perso di vista il carattere distintivo della sinistra che è sempre stato l’egualitarismo. Oggi la contrapposizione frontale dovrebbe essere tra neoliberismo, che si risolve fatalmente in aumento delle disuguaglianze, e socialdemocrazia che le riduce. Quindi tutto il fenomeno presentato come populismo altro non è che il risultato delle difficoltà della democrazia liberale, nelle sue svariate articolazioni, di affrontare il problema centrale della nostra epoca, la fortissima sensazione di insicurezza, non caratterizzante solamente nell’aspetto economico, delle singole persone. Questa è la grande questione che lascia una grave eredità di delusione, disillusione e di fallimento, e che trascina l’intera società ad una disperata ricerca di nuove forme di rappresentanza, vista la poca differenza negli effetti pratici dell’alternanza nei governi di destra e sinistra. Per questo, abbiamo visto, l’affermarsi di governi e relativi leader che sembravano, o si atteggiavano, a possibili demiurghi, o di nuova possibilità di mobilitazione e protesta, Il movimento dei gilet gialli o giubbotti gialli in Francia, per cercare un orizzonte diverso da questo attuale, ma con rischi e pericoli ancora sconosciuti per la tenuta democratica [6] anche con la sempre più “discesa in campo” di grandi capitalisti in politica, come Belusconi e Trump.
Stefano Rodotà nel 2013 ne aveva tracciato un principio importante, almeno per chi si definisce di sinistra: «Un principio inaccettabile per la sinistra è la riduzione della persona a homo oeconomicus, che si accompagna all’idea di mercato naturalizzato: è il mercato che vota, decide, governa le nostre vite. Ne discende lo svuotamento di alcuni diritti fondamentali come istruzione e salute, i quali non possono essere vincolati alle risorse economiche. Allora occorre tornare alle parole della triade rivoluzionaria, eguaglianza, libertà e fraternità, che noi traduciamo in solidarietà: e questa non ha a che fare con i buoni sentimenti ma con una pratica sociale che favorisce i legami tra le persone. Non si tratta di ferri vecchi di una cultura politica defunta, ma di bussole imprescindibili. Alle quali aggiungerei un’altra parola-chiave fondamentale che è dignità» [7]. Questo è il punto focale anche nelle nazioni più ricche. Per esempio in Italia abbiamo 5 milioni 770 mila poveri assoluti che dispongono di meno di 2 dollari al giorno. A questi vanno aggiunti circa 7 milioni di poveri relativi. Siamo a oltre dodici milioni di poveri in un paese che ha 60 milioni di abitanti e che è l’ottavo al mondo per ricchezza su 196. Ciò accade nonostante 3 milioni e 700 mila persone prendano quel minimo reddito di cittadinanza [8]. Non si vede un partito che si faccia carico di queste persone e dei loro bisogni e diritti.
1 Lo stesso partito socialdemocratico tedesco, si distinse per politiche moderate e di austerità, che nel 1998 riuscì a riprendere la guida del governo, alla testa di una coalizione con i Verdi e presentando come candidato alla cancelleria il moderato Gerhard Schröder, fautore di una politica di “nuovo centro” (Neue Mitte), che non si distinse affatto dalle politiche sostenute dai governi precedenti e successivi guidati dai democristiani tedeschi.
2 «Le politiche condotte dal PD – in particolare la facilitazione delle procedure di licenziamento (il cosiddetto “Jobs Act”) decisa dal governo Renzi poco dopo l’arrivo al potere, che ha provocato una forte opposizione dei sindacati e grandi manifestazioni (1 milione di persone a Roma nell’ottobre 2014) – hanno contribuito ad aumentare l’impopolarità del partito presso i ceti popolari e i lavoratori delle classi più povere. Il forte sostegno a queste riforme manifestato pubblicamente dalla cancelliera tedesca, la cristiano-democratica Angela Merkel, e la certezza che la loro approvazione in Parlamento sarebbe stata garantita da un accordo implicito tra PD e Forza Italia hanno contribuito a consolidare l’opinione che il partito non avesse più nulla a che fare con le sue origini socialiste-comuniste del dopoguerra», in T. Piketty, Capitale e ideologia, Milano, La nave di Teseo, 2020, p. 993.
3 In S. Vastano, La sinistra? È un Lifestyle, in “L’Espresso”, del 29/05/2022, p. 76.
4 Ibidem.
5 Le tesi dell’autrice sono rafforzate dal suo bel saggio di oltre 400 pagine, S. Wagenknecht, Contro la sinistra neoliberale, Roma, Fazi, 2022, l’autrice mette bene in evidenza come la sempre citata espressione liberalismo di sinistra è fuorviante. A guardar bene la corrente che designa non è né di sinistra né liberale, ma contraddice nella pratica l’orientamento di entrambi gli schieramenti; è una sinistra ipocrita, saccente, imborghesita, che si crede detentrice della verità e non ascolta gli elettori che chiedono «equilibrio sociale, regolamentazione dei mercati, maggiori diritti per i lavoratori, welfare state». Temi di cui la sinistra alla moda – come la definisce Wagenknecht – non si occupa più, perché la questione del lavoro è scomparsa dai suoi radar, e la lotta di casse è roba ottocentesca. Insomma questa ristretta élite autodefinitasi di sinistra, che spopola sui media, orienta la sua attenzione su globalismo, europeismo, ambientalismo, temi importanti, per carità. Ma, nella realtà fattuale, se difendi ciecamente la natura, senza curarti dei posti di lavoro di una moltitudine di persone penalizzate dall’ambientalismo radicale, il risultato è che mette la classe operaia in fuga verso destra. È purtroppo un dato di fatto. L’intero pacchetto legislativo sul clima scrive Wagenknecht come «formulato dal governo tedesco… colpisce in maniera sproporzionata i poveri e chi vive nelle regioni rurali», dunque: «Tale maggioranza ritiene… che non valga la pena sostenere l’impegno di Greta Thunberg” (Ivi, pp. 261-262). È solo un esempio di come questa sinistra – ambientalista e attenta solo ai diritti civili – abbia perso di vista i problemi più urgenti dei cittadini (economia, lavoro, occupazione). Perdendo anche i loro voti. Perché questo è il punto: i neoliberali di sinistra non pongono al centro della loro azione problemi sociali ed economici, bensì domande riguardanti lo stile di vita alla moda tra l’élite borghese. Ecco spiegata la crisi elettorale in Germania di una sinistra che non fa più la sinistra e non capisce quanto e fino a che punto l’esperienza di milioni di persone, oggi, “non sia più l’ascesa professionale, ma la caduta sociale o la paura che ciò accada” (Ivi,p. 93). Ecco perché i presunti leader riformisti italiani (da Letta a Renzi a Calenda), non godono del consenso della classe operaiae del ceto più umile: semplicemente perché non lo rappresentano più. Si occupano d’altro. Il libro demolire l’ipocrisia e “la malafede – per dirla con Sartre – di certa borghesia piena di sé” e demistificare la demagogia della loro narrazione: quel parlare di “società aperta”, mentre costruiscono muri tra le classi (si vedano le pp. 163-177); quel parlare di democrazia mentre creano un’oligarchia (Ivi, pp. 322-352); quel predicare la giustizia, mentre negano l’equità sociale e sono subalterni alla finanza.
6 I pericoli per la democrazia sono sempre più evidenti, soprattutto se consideriamo il grande potere degli ultramiliardari, la filosofa Giorgia Serughetti lo ha messo molto bene in evidenza, in questo suo articolo: «Di chi vi fidate di meno? Dei politici o dei miliardari?. Con un sondaggio su Twitter, Elon Musk pone quella che chiama una “vera domanda”, che ha però fin dal principio un suono retorico. Il risultato infatti appare scontato, considerato l’emittente del messaggio: il 76 per cento dei 3,4 milioni di utenti che hanno votato indica i politici come meno degni di fiducia. Se l’eccentrico patron di Tesla non è nuovo a provocazioni via social, l’episodio merita tuttavia qualche attenzione, sia per ciò che rivela del rapporto tra i super miliardari, il potere politico e la moltitudine dei senza-potere, sia per la dimensione massiccia della partecipazione al sondaggio che, anche al netto di possibili profili fake, segnala un pericolo nuovo, persino visto da un’Italia che di uomini ricchi pronti ad aizzare il pubblico contro politici di professione ne ha conosciuti più d’uno. Il tweet esprime la quintessenza dell’antipolitica di una classe proprietaria che dipinge il lavoro di parlamenti e governi come inutile, dannoso e fondamentalmente avverso non solo al proprio interesse ma all’interesse del “popolo” che, sgravato da oneri e imposizioni, sarebbe più libero di perseguire la propria felicità. “La politica è un generatore di tristezza”, scrive Musk in un altro post. Fino a qui, siamo su un terreno che conosciamo. In Italia, Silvio Berlusconi ha lungamente contrapposto la propria abilità di uomo d’impresa all’inerzia dei politici di professione. Però il suo caso, come quello di altri imprenditori milionari che “scendono in campo”, implica ancora il desiderio di partecipare al gioco della politica, conquistare il governo, fino magari a impadronirsi della macchina dello stato; non quello di fare a meno dello stato, o di sostituirsi al suo potere. L’aspetto storicamente inedito dei super ricchi con patrimoni a dodici cifre, quelli di cui parla Riccardo Staglianò nel suo libro Gigacapitalisti (Einaudi), è che “si tratta di privati cittadini in grado di fare cose prima appannaggio solo degli stati”: dalla gestione di scambi a livello planetario alla sorveglianza di massa, fino ai viaggi spaziali. Privati che fanno tutto ciò come privati, senza l’ambizione di conquistare il potere politico. Cosa significa allora «fidarsi» dei miliardari, che non rendono conto a nessuno, più che dei politici che rispondono all’elettorato? Significa vedere nei primi una promessa di felicità, anche se le loro innovazioni paiono lontane anni luce dalla vita e i problemi quotidiani delle persone comuni? E pur sapendo che nella crisi pandemica questi hanno moltiplicato i propri guadagni, mentre milioni di persone regredivano sotto la soglia minima di benessere? Sono domande che trovano risposta solo guardando il rovescio della medaglia, osservando la perdita generale di fiducia in partiti politici che faticano a rappresentare componenti sempre più ampie del demos, e la distruzione del credo nell’uguaglianza che tiene in vita la democrazia. Solo che di queste dinamiche i “gigacapitalisti” come Musk, Jeff Bezos o Mark Zuckerberg non sono spettatori interessati, sono attori. L’informazione tossica delle piattaforme social, l’attentato ai diritti dei lavoratori, il ricatto esercitato verso gli stati, sono solo alcuni dei modi con cui favoriscono la crescita del malessere individuale, insieme alla sfiducia nel collettivo e nella politica. Per questo, come scrive Staglianò, dire che rappresentano una minaccia per la democrazia “non è un’iperbole”. E poiché la loro ambizione è globale, nessuna democrazia può dirsi al sicuro», in G. Serughetti, Il caso Elon Musk. L’antipolitica dei miliardari minaccia la democrazia, in “Domani”, del 30/05/2022, p. 5.
7 Dall’intervista di Simonetta Fiori, Stefano Rodotà: “Dignità, la parola chiave”, in “la Repubblica”, 23 luglio 2013, in https://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/2013/07/23/news/stefano_r