La questione palestinese non nasce oggi né si può ridurre agli eventi più recenti. Ha radici lontane che affondano almeno nel 1917, con la Dichiarazione Balfour: una promessa dell’Impero britannico di creare un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, senza consultare né coinvolgere la popolazione araba locale. Una mossa strategica durante la Prima guerra mondiale, poi abbandonata nel riassetto coloniale del Medio Oriente, spartito tra Inghilterra e Francia come bottino postbellico.
Negli anni Trenta e Quaranta, l’immigrazione ebraica in Palestina aumentò, sospinta dalla tragedia dell’Olocausto. Le tensioni con la popolazione araba crebbero in parallelo. Nel 1947, l’ONU approvò la Risoluzione 181: due Stati, uno ebraico e uno palestinese e Gerusalemme sotto controllo internazionale. Ma i paesi arabi respinsero il piano. Nel 1948, la nascita di Israele portò alla prima guerra arabo-israeliana. Israele, grazie anche agli aiuti dell’URSS tramite la Cecoslovacchia, resistette. I palestinesi, invece, iniziarono una lunga diaspora senza fine.
Per decenni, l’OLP di Arafat rappresentò la principale forza politica palestinese. Ma l’assenza di veri alleati arabi e i compromessi imposti dai processi di pace ne hanno progressivamente eroso il consenso. Questo ha aperto la strada ad Hamas, movimento islamista che nel 2006 ha conquistato il potere a Gaza. Una forza che, pur ricorrendo a metodi armati e terroristici, agisce senza una visione politica chiara, in un contesto dove la disperazione prevale sulla strategia.
Paradossalmente, Israele ha in alcuni casi preferito Hamas all’OLP: più radicale, più isolabile, più facile da delegittimare. Secondo documenti pubblicati da WikiLeaks, settori dell’intelligence israeliana avrebbero addirittura visto con favore un governo di Hamas a Gaza, considerandolo “più gestibile”.
Il motivo è intuibile: il terrorismo privo di progetto politico condiviso e lungimirante resta sterile. La storia insegna che le lotte di resistenza efficaci, come quella italiana o la lotta algerina, sono dirompenti quando partono da movimenti popolari ampi, con orizzonti politici chiari.
Nel caso palestinese, invece, la mancanza di un progetto politico condiviso e il tradimento sistematico da parte di molti paesi arabi hanno contribuito al disastro attuale. L’esempio più tragico è il Settembre Nero del 1970, col massacro migliaia di palestinesi. ll pretesto fu un presunto attentato da parte dei palestinesi di voler rovesciare la monarchia, ma la crisi rifletteva tensioni ben più profonde. E anche allora, la comunità internazionale voltò lo sguardo altrove.
Oggi la Cisgiordania è formalmente sotto l’Autorità Nazionale Palestinese, secondo gli Accordi di Oslo, ma in realtà frammentata e in gran parte sotto controllo militare israeliano. Ogni forma di dissenso o solidarietà verso Gaza viene repressa. La strategia americana, in particolare con il segretario di Stato Blinken, punta a rafforzare Abu Mazen e isolare Hamas. Ma gran parte dei palestinesi non si riconosce più in nessuno dei due.
Nel frattempo, il governo israeliano è sempre più determinato a espandere gli insediamenti nei territori occupati mettendo in atto un genocidio.
Quindi, essere al fianco dei palestinesi vuol dire riaffermare un principio semplice: ogni popolo ha diritto a una patria e ogni essere umano ha diritto a vivere senza paura.
Ma tutto questo oggi si scontra con una realtà ancora più amara: il sistematico tradimento del diritto internazionale. Le Risoluzioni ONU disattese, le Convenzioni di Ginevra violate, le sentenze ignorate: la Palestina è diventata il simbolo vivente che l’ordine mondiale è rovesciato: predica legalità ma pratica l’arbitrio.
Se il diritto internazionale non vale per i più deboli, allora non vale per nessuno. È questo, forse, il fallimento più grave.
