I cittadini italiani possono esprimersi l’8 e 9 giugno per 5 referendum che riguardano il ripristino di diritti sacrosanti negati da leggi, volute principalmente da Confindustria, da abolire, attraverso la vittoria del “Si”. Questi referendum sono, indirettamente, anche la negazione della scelte di spendere inutilmente i soldi pubblici in riarmo, perché se vince il “Si” diventa chiaro che il popolo italiano è favorevole alle spese per assistenza sanitaria, per avere più ospedali e per le spese sociali e istruzione.
I soliti noti vogliono che questi referendum falliscano e non si raggiunga il quorum.
Noi tutti finalmente abbiamo una grande possibilità di mettere fine a scelte politiche belliciste in modo indiretto, oltre ad ottenere il ripristino dei nostri diritti sociali e democratici fondamentali.
Non perdiamo questa grandissima occasione perché se non si raggiunge il quorum potrebbe essere l’ultima possibilità per evitare il peggio.
Se i salari e gli stipendi in Italia sono tra i più bassi in Europa è principalmente perché Italia nel 1985 si tenne il 9 e 10 giugno il referendum che riguardava la disciplina normativa che, nel corso del 1984, aveva disposto il taglio della scala mobile, segnatamente il taglio di 3 punti di contingenza. In quella occasione purtroppo vinse il no, come conseguenza indiretta si ebbe negli anni successivi la completa abrogazione della scala mobile, nel 1990:
Confindustria dà formale disdetta all’accordo interconfederale istitutivo della scala mobile, che poi verrà confermata l’anno successivo.
1992:
La scala mobile viene definitivamente soppressa con la firma del protocollo triangolare di intesa tra il governo Amato e le parti sociali.
In sintesi, l’abolizione della scala mobile è stata un processo graduale, iniziato con tagli al suo funzionamento e concluso con la sua definitiva soppressione nel 1992, questo perché al referendum del 1985 vinse il no. Sono passati anni e con la globalizzazione dei commerci e dei mercati, anche di quello del lavoro, amplificata dalle nuove tecnologie ha determinato la destrutturazione degli assetti economici, sociali e politici che caratterizzavano il mondo industrialmente avanzato, in particolare il nostro sistema-Paese che ha portato all’aumentare delle disuguaglianze inimmaginabile quando al referendum del 1985 vinse il no.
Quindi ricordiamo bene che Chi è contro i referendum? I ricchi e tutti i loro servi.
Andiamo a votare l’8 e il 9 giugno, difendiamo i diritti di tutti!
L’8 e il 9 giugno prossimi, l’Italia è chiamata a votare su cinque referendum abrogativi: i primi quattro relativi al lavoro, l’ultimo riguardante il requisito per ottenere la cittadinanza italiana.
Sottolineando il fatto che gli organi di informazione hanno fatto passare in sordina la notizia, senza fare i dovuti approfondimenti, e che il Governo si è palesemente schierato contro, il quinto quesito è forse quello che ha acceso le polemiche più feroci, sottolineando ancor di più l’aria che tira in materia di diritti, soprattutto quelli degli stranieri.
L’ultimo referendum si riferisce, infatti, alla cittadinanza per stranieri non appartenenti all’Unione europea, intervenendo sulla parte della legge n.91/1992 secondo cui uno straniero può ottenere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo 10 anni di residenza legale continuativa in Italia, con un passaggio anche sui minori adottati da cittadini italiani, che ottengono la cittadinanza solo attraverso un’adozione formale.
Dunque, l’obiettivo è quello di abrogare l’attuale requisito di 10 anni di residenza legale riducendolo a 5 anni ed estendere in maniera automatica il diritto di cittadinanza ai figli minori dei nuovi cittadini italiani, cioè degli stranieri che l’hanno ottenuta, rileggendo ad hoc il passo sull’adozione.
Se venisse approvato, fatti salvi tutti gli altri requisiti necessari, quali il tetto di reddito stabilito, la conoscenza della lingua italiana, l’assenza di precedenti penali, l’ottemperanza agli obblighi tributari, si renderebbe giustizia a tutte quelle persone che nascono, crescono, studiano, lavorano e pagano le tasse nel nostro Paese, favorendo un’integrazione non solo più celere ma anche più consapevole.
Dieci anni rappresentano davvero un tempo troppo lungo per chi si sente già “a casa”, si sente italiano a tutti gli effetti, e che viene discriminato perché non può partecipare ai concorsi pubblici; se studente, non può prendere parte ai percorsi di studio all’estero; se sportivo, non può rappresentare l’Italia nelle varie competizioni.
Se si pensa a un bambino, figlio di una coppia che ha ottenuto la cittadinanza, nato in Italia, che frequenta le scuole italiane, che non conosce neppure la sua terra d’origine, per cui sente forte il senso di appartenenza al Paese, perché deve aspettare il compimento del diciottesimo anno e aspettarne altri dieci per ottenere la cittadinanza? È altamente discriminatorio, perché mentre si parla di integrazione, una legge continua a farlo sentire straniero nel posto in cui non si è dovuto integrare ma è nato! Si tratta di un controsenso ridicolo, in un Paese che è cambiato e cambierà ancora, ma non si adegua alla nuova realtà, come hanno invece fatto tanti Stati europei, dove il processo di ottenimento della cittadinanza è molto più breve e snello, tenendo conto anche del fatto che, a causa della burocrazia italiana, proverbialmente lenta, gli anni non sono effettivamente 10 ma molti di più.
Appare strano che la globalizzazione riguardi l’economia e non l’umanità, e che non si ricordi la lunga e dolorosa storia dell’emigrazione italiana. Il mondo è pieno di connazionali figli di emigranti, che hanno subìto trattamenti non certo piacevoli.
Spiacevoli come le dichiarazioni di alcuni esponenti del Governo che hanno palesemente invitato a non andare a votare. Su quest’ultimo aspetto si possono prendere in prestito le parole di Antonio Di Pietro che, in un recente incontro a Termoli, ha detto: «Non dobbiamo starcene seduti e accettare quello che pregiudizialmente ci viene detto. La rassegnazione è evidente, tanto che non ha fatto scalpore quello che è stato detto da un rappresentante del Governo che ha invitato a non andare a votare. Si può anche non essere d’accordo con alcuni dei quesiti referendari, ma vincere perché si decide a tavolino di non far raggiungere il quorum non è corretto». L’invito all’astensionismo è solo un modo per azzittire il popolo prima che si possa esprimere, ostacolando un istituto di democrazia diretta; invito che oggi appare ancora più disdicevole se si ricorda che Matteo Salvini definiva “ladro di democrazia” chi spingeva gli elettori a non votare. Questo, naturalmente, quando non era al Governo e utilizzava temi a effetto per captare voti, imperniando sugli stranieri l’intera propaganda elettorale, parlando alla pancia di un Paese martellato da notizie inesatte sugli immigrati.
Tornando al quinto quesito, cittadinanza per uno straniero non vuol dire solo diritti ma anche, e soprattutto doveri, partecipazione alla vita politica, scelta attraverso il voto, uscendo da quel limbo di incertezza a causa di un percorso lunghissimo e pieno di ostacoli. Piaccia o no, gli stranieri sono una realtà e, in tanti ambiti, una risorsa, dunque, accelerare i tempi per l’ottenimento della cittadinanza è anche un modo per far nascere un dibattito parlamentare che possa addivenire a soluzioni consone per una totale integrazione degli “stranieri in patria”, attraverso progetti dedicati e una legge che riempia il vulnus democratico.