Le diseguaglianze etniche e razziali sono state alla base degli episodi più tragici nella storia dell’umanità e rappresentano ancor oggi uno dei principali ostacoli nel progresso dell’umanità verso la pace e lo sviluppo.
Editoriali
La lotta alle diseguaglianze solleva un grosso interrogativo: dov’è che bisogna intervenire? Ovvero, lo sforzo è di rendere tutti eguali nelle condizioni di partenza o al traguardo finale? La questione non è da poco poiché influisce sul tipo di società e di Stato che saremo chiamati ad edificare
I limiti dell’esperienza del socialismo reale vanno ricercati nella natura dell’uomo che, a differenza degli animali sociali, resta un animale individualista che solo per opportunità sceglie di vivere in forme sociali. Per questo essere individualista resta centrale il proprio punto di vista personale che lo orienta nelle scelte del quotidiano.
Con il decreto che delega al governo la riforma fiscale ci siamo avviati verso la creazione di uno Stato “iniquo” che favorisce i redditi alti, gli evasori e l’elusione fiscale a danno dei lavoratori dipendenti e dei contribuenti onesti. Sebbene il nostro sistema fiscale dovrebbe essere “informato ai criteri di progressività” in realtà la continua e costante riduzione del numero di aliquote ha reso la statuizione costituzionale una semplice enunciazione di principio.
Se la disuguaglianza è connaturata al capitalismo, come sostiene Piketty nel suo “Capitale nel XXI secolo”, il vero problema è che il capitalismo moderno – non a caso definito turbocapitalismo – sembra un modello pensato per generare disuguaglianze sulle quali lo stesso si regge e ne trae la forza.
I rapidi progressi nell’intelligenza artificiale si preparano a trasformare il mondo del lavoro.
Nelle fabbriche più avanzate del mondo stanno per partire produzioni “al buio”, cioè processi lavorativi completamente automatizzati che non richiedono nessun intervento umano.
Il nuovo report di Oxfam, organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze, pubblicato in occasione dell’apertura del World Economic Forum di Davos ci racconta che “La disuguaglianza non conosce crisi”.
Ci sono degli uomini, i super-maxi-ricchi che gli anglosassoni chiamano Uhnwi (Ultra high net worth individuals), che vivono in una “loro bolla” fatta di yacht e attici di lusso che li separa dal resto del mondo, sebbene essa non gli impedisce di interferire negli affari politici, finanziari e soprattutto fiscali sempre, ovviamente, a difesa del loro status sociale.
La comunità in cui viviamo sta cambiando di dimensione, essa non è più la nazione ma il mondo intero; in consequenza potremo definire la globalizzazione come uno stato di connettività complessa della società che ha degli effetti sociali molto profondi sull’intera comunità mondiale. L’esplosione delle disuguaglianze è uno di questi effetti sociali causati dalla globalizzazione economica.
A cento anni dal colpo di Stato di Mussolini con cui si abbatteva lo Stato liberale, il governo Meloni dopo aver ridisegnato alcuni ministeri in nome del “merito” approva nel suo primo cdm una norma penale contro i rave party che pare più una restrizione del diritto di manifestare.
Nelle prossime settimane toccherà ai percettori del reddito di cittadinanza ed ai migranti, poi sarà la volta dei territori con l’autonomia differenziata, delle donne con il diritto all’aborto o dei lavoratori malpagati a cui sarà negato il salario minimo.
È così che le disuguaglianze vengono create, occultate dapprima e poi accettate dai più.
Ma per esistere le disuguaglianze hanno bisogno di “miti fondativi e giustificativi”.
Questi miti poggiano su processi psico-sociali che fanno apparire come giuste le disparità in quanto legittime asimmetrie e sperequazioni legate allo status dei singoli o dei gruppi sociali.
È in particolare nei momenti di crisi economica che si verifica un aumento della conflittualità sociale con aumento di processi di emarginazione, discriminazione nei confronti degli svantaggiati. L’antisemitismo fu la reazione alla crisi economica che colpì la repubblica di Weimar, come oggi lo è il pregiudizio etnico fra coloro che attribuiscono la crisi agli immigrati o la prevenzione nei confronti degli asiatici dell’estremo oriente, avvertiti come una minaccia economica.
Ma quali sono le ragioni psicologiche e psico-sociali che finiscono per legittimare le disuguaglianze anche da parte di chi le subisce?
In genere il potere e i privilegi dei gruppi sociali elevati sono presentati come necessari ad un ordine sociale di cui godono anche i meno favoriti, i quali accettano il ruolo ritagliato per loro sia perché beneficiari dell’assistenza sia per evitare di essere marchiati come ingrati.
Naturalmente gli stereotipi ed i pregiudizi fanno la loro parte: i poveri sono sfaticati, i ricchi hanno meritato i loro averi, gli uomini comandano perché razionali e forti a differenza delle donne emotive e deboli di natura ecc. In questo contesto la “credenza del merito” quale ascensore sociale dà legittimità al sistema.
In un periodo in cui si afferma la fine delle ideologie, avremo bisogno che alla credenza del merito si sostituisse una “ideologia della giustizia sociale” che ricrei legami fra gli svantaggiati ed eviti la stupida guerra fra gli ultimi ed i penultimi della nostra società.
Abbiamo necessità di risaldare i legami sociali, valorizzare i beni comuni, riscoprire il valore della condivisione; insomma, abbiamo bisogno di una prospettiva inclusiva e riparativa delle disuguaglianze.
Tuttavia, dalle sue prime mosse, non sembra che il nuovo governo intenda perseguire tali finalità ed anzi, invocando il merito, pare rincorrere quei miti giustificativi delle disparità che fanno divampare le diseguaglianze.
L’auspicio è che non si imbocchi la strada della democratura ma prevalga la politica dell’inclusione sociale.