Vorrei cominciare con le interessanti affermazioni di Papa Francesco: «… un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata ‘meritocrazia’». Il richiamo alla meritocrazia affascina perché usa una intricante parola il ‘merito’, ma essa viene strumentalizzata e usata ideologicamente, viene snaturata e utilizzata in modo innaturale. La meritocrazia infatti, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione politica ed etica della disuguaglianza.
Sociale
Ucciso da un auto mentre consegna pizze e panini in bici e “l’algoritmo” non fa nemmeno le condoglianze alla famiglia ma lo licenza (sic!)
Sebastian Galassi, 26 anni, è morto su una bici perché investito da un auto mentre lavorava.
Usava la bici per lavoro ma non era un ciclista professionista che si allenava per il Giro o per il Tour, era un “rider” per Glovo, perché “ciclofattorino” suona male, vuoi mettere quando fai il fico con gli amici invitati a cena ed esclami tra poco arriva il “rider con il sushi, tutto a casa, tutto grazie all’APP”.
Magari quella bici era pure una bici di fortuna e forse Sebastian non amava nemmeno tanto pedalare, ma con quella bici probabilmente riusciva ad alzare un piccolo reddito saltuario consegnando pizze e panini a clienti “attenti” alla temperatura degli alimenti e ai tempi di consegna per “alimentare” le recensioni di un algoritmo che non perdona “disservizi o ritardi”, tanto da licenziarti anche da morto.
Mauro Biani ha dedicato a questo terribile fatto di cronaca una vignetta in cui si vede un novello Charlie Chaplin che, indossato il borsone dei cliclofattorini, è intendo a riaggiustare gli ingranaggi di una bicicletta come farebbe in “Tempi Moderni”. L’illustrazione a mio avviso riesce a rappresentare molto bene la nuova “catena di montaggio”, che non ha più un luogo fisso ma tanti luoghi geolocalizzati da un algoritmo, da raggiungere con una bici secondo tempi scanditi sempre dell’algoritmo.
Non è la bici che stanca o fa morire i ciclofattorini ma sono i ritmi insostenibili imposti dagli algoritmi e i rischi legati alla mancata sicurezza stradale.
La bici in una situazione così, di vero e proprio “caporalato”, diviene una compagna di lavoro e come per anni la falce e il martello nella società italiana hanno rappresentato il simbolo della lotta dei lavoratori, oggi, allo stesso modo è la bici il simbolo del riscatto sociale ed ecologico dei tanti “invisibili” sul lavoro.
La legislazione sul lavoro per i ciclofattorini è figlia non solo di confusione, ma di un caporalato moderno, perché non è solo nei campi che trovi il “caporale” che ti sfrutta e ti controlla, oggi esiste un “caporale” nel nostro telefono che mentre consegni pizze e panini ti geolocalizza, segna i tuoi tempi e ti spinge a pedalare più forte non per un “premio” ma per qualche spicciolo e se hai un problema sei fuori e se hai un incidente o muori non sei più un lavoratore sei un autonomo e quindi non ti sei ferito o hai perso la tua vita mentre lavoravi per consegnare una maledetta pizza… non sei un lavoratore subordinato ma uno “schiavo moderno”.
Mai più una pizza a casa senza un contratto di lavoro vero!
BUON PRIMO MAGGIO. UN PENSIERO ALLA STRAGE DI PORTELLA DELLA GINESTRA, LA PRIMA STRAGE DI STATO
Portella della Ginestra è scolpita nel mio cuore. In questo Primo Maggio penso e ripenso a quello che seguì il Primo Maggio del 1994. Appena pochi giorni prima ero stato eletto parlamentare. Dopo la manifestazione festeggiammo nella casetta di campagna messa a disposizione dal coraggioso sindacalista Vincenzo Palermo. Dopo pochi giorni, fu fatta prima bruciare e, a seguito delle manifestazioni di protesta, addirittura saltare in aria. La mafia non tollerava l’affermazione nella zona di diversi sindaci progressisti e di un giovane parlamentare progressista. Fu così che ebbi il mio “battesimo” da parlamentare. Altri attentati mafiosi si registrarono in tutti i paesi limitrofi.
Fummo subito riportati nel clima della Strage del Primo Maggio del 1947, la Prima Strage di Stato dell’era Repubblicana.
Portella della Ginestra si trova nel Comune di Piana degli Albanesi. Una località bellissima, incastonata tra piccoli monti del Kumeta, della Maja e del Pelavet, in una zona scelta da antichi Albanesi per crescere in pace e nel progresso.
Siamo subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. La Carta Costituzionale è in gestazione. Le forze democratiche protagoniste della Liberazione stanno insieme e formano un governo unitario.
La Sicilia intanto ribolle:
- da un lato, i monarchici coltivano il mito del grande ritorno; i latifondisti e gli agrari cercano di mantenere privilegi e potere, i fascisti di occultarsi e rilanciarsi; i mafiosi si adoperano per fare da collante all’interno del nuovo sistema di potere da alimentare e imporre in ogni modo.
- dall’altro lato, i progressisti nei partiti e nei sindacati lavorano alacremente per radicarsi capillarmente nella società, attraverso la lotta per la riforma agraria e per la promozione dei nuovi diritti. Riescono nell’impresa di convergere e insieme si presentano alle prime elezioni politiche libere in Italia per eleggere l’Assemblea Regionale Siciliana. Il 20 Aprile del 1947, vince la sinistra organizzata nel “Blocco del Popolo”.
A Portella della Ginestra, pochi giorni dopo, il Primo Maggio del 1947 si vuole finalmente ritornare a festeggiare insieme il lavoro ma anche la vittoria delle forze Progressiste.
Uomini e donne, bambine e bambini, molti giovani: tutti presi dall’entusiasmo per il nuovo corso, dopo anni e anni di soprusi e sofferenza!
Bandiere, canzoni, slogan, abbracci, sorrisi vengono sopraffatti dal crepitio delle pallottole.
Si consuma così la Strage di Portella!
Molti cadono a terra immersi nel loro sangue: in 11 undici muoiono subito, altri sei nei giorni successivi, a seguito di gravissime ferite. Ma tanti altri sono colpiti, si stima una trentina. Alcuni porteranno per sempre nei loro corpi i segni di quella feroce aggressione.
Indagini e processi si sono susseguiti nel tempo. Giuliano e la sua banda sono stati ritenuti i soli colpevoli, ma in realtà sono rimasti impuniti mandanti e complici! Una storia che si ripete continuamente lungo il travagliato cammino della nostra democrazia.
Di Portella adesso sappiamo molto di più. Io stesso ho contribuito in Commissione Antimafia a far desegretare gli Atti custoditi negli archivi. Da Presidente della Commissione, li ho consegnati a Portella il 1° Maggio del 2001.
La Strage di Portella della Ginestra si porta appresso tre motivi tuttora da sviscerare bene:
1) Motivi geopolitici internazionali, dovuti alla divisione di Yalta, alla fine della seconda guerra mondiale, che sancì la spaccatura del mondo in due sfere di influenza. In Italia ai Progressisti era pertanto preclusa la possibilità di vincere le elezioni. Dopo Portella, iniziò infatti la cosiddetta “conventio ad excludendum”.
2) Motivi geosociali interni al nuovo patto sociale che doveva reggere il Paese. L’avvio della stagione delle Grandi riforme sociali non doveva tuttavia alimentare un nuovo modello di sviluppo e soprattutto la crescita democratica del ceto medio-basso e il suo possibile spostamento su posizioni progressiste.
3) Motivi geopolitici e sociali legati alla Sicilia. Bisognava spezzare le gambe ad un percorso autonomistico libero dalla mafia e ricco di possibili riforme sociali e di sviluppo democratico in senso progressista.
E’ il dilemma che molti giovani rom e sinti oggi si pongono di fronte a una realtà in veloce evoluzione, che frantuma i valori tradizionali delle famiglie romanès.
I Campi Nomadi sono una questione etico-morale
I campi nomadi rappresentano una forma orrenda di segregazione razziale e pertanto un crimine contro l’umanità. L’aggravante è che tutto viene mascherato da esigenze culturali inesistenti: i rom e sinti non sono nomadi per cultura poiché la storia ci ha dimostrato che la loro mobilità è sempre stata coatta, figlia di discriminazioni su base etnica e di persecuzioni disumane. Le comunità romanès in ogni epoca, dal XV secolo ad oggi,
Lo sanno tutti ormai. È una verità acquisita. Un dato incontrovertibile per i razzisti e per coloro che sanno tutto su tutti e soprattutto sugli odiati “zingari” sporchi, brutti e cattivi, nomadi che non si vogliono integrare nella società civile. Fra tutti questi stereotipi quello di sottrarre i minori alle proprie famiglie è il più grave e inaccettabile.
I rom e sinti non sono mai stati nomadi per cultura ma la mobilità è sempre stata coatta e figlia di persecuzioni disumane non rilevate dagli storici ufficiali e di corte. Ecco allora campagne mediatiche ben preparate e reiterate al momento giusto. Tutto pianificato e tutto prestabilito come sempre, come ovunque.
La verità è che le discriminazioni per chi nasce povero, in Italia, sono infinite.
I poveri vengono discriminati dalla nascita e per tutta la vita.
Chi ha avuto la fortuna di non essere povero non potrà mai capire, non può capire. La discriminazione ha mille volti e si manifesta in ancor più modi.
Anche se negli studi dimostri di valere, ti mettono in difficoltà in modo anche subdolo.
Verificate quante persone di umile origine, riescono a vincere il concorso di dottorato di ricerca in Italia. Sicuramente il rdc non sarà perfetto, sicuramente ci sono abusi e tantissime problematiche, ma di certo è uno strumento per aiutare chi ha maggiore bisogno nella nostra società.
Dare i soldi ai ricchi imprenditori, credo sia verificato, non comporta automaticamente assunzioni, migliori condizioni di lavoro, utilizzo di tecnologie avanzate. Spesso gli imprenditori, che fanno i loro interessi, appena possono delocalizzano e vanno a fare i loro “guadagni” dove più conviene.
Ritengo che sia educativo e utile, per le persone che possono, legare il rdc a lavori pubblici di utilità collettiva.
Nel new deal, dal 1933 negli Stati Uniti, milioni di persone ebbero dallo stato un reddito che permise loro di vivere dignitosamente e , così, l’economia ricomincio a crescere, tanto che divennero la prima economia del mondo.
Quindi con un programma statalista, per dirla tutta anche socialista, i liberali, oggi superliberisti, Stati Uniti divennero economicamente, e non solo economicamente, egemoni nel mondo.
“IL PIZZO NON SI PAGA”: A TRENT’ANNI DAL SACRIFICIO DI LIBERO GRASSI È IL TEMPO DI FARE LA SCELTA DELLE SCELTE
Libero Grassi fece una scelta: il pizzo non si paga, è la rovina delle imprese. Un imprenditore libero non si mette sotto il giogo dei boss. È anche un dovere non finanziare di fatto le mafie nel controllo capillare del territorio, perché è così che traggono linfa attraverso le estorsioni e con quei soldi alimentano anche il loro welfare criminale.
Sono passati trent’anni, molti imprenditori hanno denunciato ma moltissimi ancora pagano. Abbiamo accumulato un’esperienza straordinaria sull’universo delle estorsioni: conosciamo le paure e i rischi che attanagliano la vita degli operatori economici, la forza ma anche i gravi limiti dello Stato, le difficoltà cui si va incontro dopo aver denunciato e le potenzialità della promozione del consumo critico che supporta gli imprenditori che denunciano. Ma le mafie non mollano e in molti territori la stragrande maggioranza ancora non sceglie la libertà e si lascia soggiogare dalle mafie.
È possibile fare un salto di qualità nella lotta alle estorsioni? Penso di sì. Penso che l’esempio di Libero Grassi, che è stato seguito da migliaia di imprenditori, può diventare adesso il motore di una scelta in grado di scatenare una guerra senza precedenti alle mafie delle estorsioni, contenendo al massimo i rischi e portando su questa strada milioni di piccoli e grandi esercenti commerciali, artigianali, turistici, aziende agricole e della pesca, insomma tutto il mondo produttivo, in modo da vincere definitivamente la sfida contro le mafie delle estorsioni.
È una scelta che comporta una decisione parlamentare e di Governo, condivisa e matura: bisogna rendere la denuncia obbligatoria. Ecco il perno della nuova scelta. Solo così l’operatore economico può fare spallucce di fronte alla richiesta estorsiva, “scaricando” sullo Stato una scelta che spersonalizza qualunque volontà, come si è fatto quando sui sequestri di persona si è neutralizzato questo lucrosissimo e drammatico affare delle mafie di allora bloccando il patrimonio delle famiglie dei rapiti.
A quel punto la convenienza si sposta automaticamente verso la denuncia, perché il meccanismo potrebbe essere il seguente: se denuncio, per tre anni non pago le tasse e lo Stato mi premia con un fondo perduto automatico, in base agli scaglioni del mio fatturato; se pago, invece, incappo in una sanzione amministrativa peggiore di qualunque misura penale, l’attività mi viene chiusa per sei mese e nei casi più gravi per un anno e, se rimango fermo nell’omertà, rischio anche sul piano penale perché mi può essere contestato il reato di favoreggiamento.
Se vogliamo, insomma, evitare che passino altri trent’anni dall’omicidio di Libero Grassi senza sferrare il colpo decisivo, dobbiamo andare al cuore del problema e agire di conseguenza.
Naturalmente altre tre questioni vanno a corredo di questa scelta principale:
1) Bisogna sburocratizzare ulteriormente il sostegno agli imprenditori che denunciano: troppi vincoli, troppi passaggi, troppi mesi prima che si arrivi al ristoro.
2) Chi rischia non può essere protetto per poco tempo e poi mollato e lasciato solo, dopo aver esposto l’operatore nei processi in testimonianze rischiosissime e coraggiosissime. Le mafie non dimenticano e lo Stato deve essere pertanto pronto a proteggere per sempre chi si è esposto.
3) La cultura della libertà di Libero Grassi deve diventare parte integrante dei corsi che si organizzano nelle camere di commercio per il rilascio della licenza necessaria per aprire l’attività. Oltre alla formazione tecnica, bisogna fornire anche questo tipo di formazione, che vale moltissimo per preparare l’imprenditore sia sul piano psicologico sia sul piano operativo a questo possibilissimo impatto.
Libero Grassi aveva compreso tutto e agì di conseguenza. Adesso spetta sia al mondo economico sia allo Stato dimostrare che anch’essi hanno capito tutto e sono pronti a fare quello che non si è mai fatto finora per battere così sul serio le mafie nel territorio, dove una vittoria di questo tipo avrebbe un valore di portata inestimabile
Attraverso una progettualità coerente e duratura, sviluppando il principio di trasparenza e condivisione e di interscambio, è possibile fare futuro come dimostra l’esperienza della locale cooperativa sociale “Il Geco”.