E’ il dilemma che molti giovani rom e sinti oggi si pongono di fronte a una realtà in veloce evoluzione, che frantuma i valori tradizionali delle famiglie romanès.
Sociale
I Campi Nomadi sono una questione etico-morale
I campi nomadi rappresentano una forma orrenda di segregazione razziale e pertanto un crimine contro l’umanità. L’aggravante è che tutto viene mascherato da esigenze culturali inesistenti: i rom e sinti non sono nomadi per cultura poiché la storia ci ha dimostrato che la loro mobilità è sempre stata coatta, figlia di discriminazioni su base etnica e di persecuzioni disumane. Le comunità romanès in ogni epoca, dal XV secolo ad oggi,
Lo sanno tutti ormai. È una verità acquisita. Un dato incontrovertibile per i razzisti e per coloro che sanno tutto su tutti e soprattutto sugli odiati “zingari” sporchi, brutti e cattivi, nomadi che non si vogliono integrare nella società civile. Fra tutti questi stereotipi quello di sottrarre i minori alle proprie famiglie è il più grave e inaccettabile.
I rom e sinti non sono mai stati nomadi per cultura ma la mobilità è sempre stata coatta e figlia di persecuzioni disumane non rilevate dagli storici ufficiali e di corte. Ecco allora campagne mediatiche ben preparate e reiterate al momento giusto. Tutto pianificato e tutto prestabilito come sempre, come ovunque.
La verità è che le discriminazioni per chi nasce povero, in Italia, sono infinite.
I poveri vengono discriminati dalla nascita e per tutta la vita.
Chi ha avuto la fortuna di non essere povero non potrà mai capire, non può capire. La discriminazione ha mille volti e si manifesta in ancor più modi.
Anche se negli studi dimostri di valere, ti mettono in difficoltà in modo anche subdolo.
Verificate quante persone di umile origine, riescono a vincere il concorso di dottorato di ricerca in Italia. Sicuramente il rdc non sarà perfetto, sicuramente ci sono abusi e tantissime problematiche, ma di certo è uno strumento per aiutare chi ha maggiore bisogno nella nostra società.
Dare i soldi ai ricchi imprenditori, credo sia verificato, non comporta automaticamente assunzioni, migliori condizioni di lavoro, utilizzo di tecnologie avanzate. Spesso gli imprenditori, che fanno i loro interessi, appena possono delocalizzano e vanno a fare i loro “guadagni” dove più conviene.
Ritengo che sia educativo e utile, per le persone che possono, legare il rdc a lavori pubblici di utilità collettiva.
Nel new deal, dal 1933 negli Stati Uniti, milioni di persone ebbero dallo stato un reddito che permise loro di vivere dignitosamente e , così, l’economia ricomincio a crescere, tanto che divennero la prima economia del mondo.
Quindi con un programma statalista, per dirla tutta anche socialista, i liberali, oggi superliberisti, Stati Uniti divennero economicamente, e non solo economicamente, egemoni nel mondo.
“IL PIZZO NON SI PAGA”: A TRENT’ANNI DAL SACRIFICIO DI LIBERO GRASSI È IL TEMPO DI FARE LA SCELTA DELLE SCELTE
Libero Grassi fece una scelta: il pizzo non si paga, è la rovina delle imprese. Un imprenditore libero non si mette sotto il giogo dei boss. È anche un dovere non finanziare di fatto le mafie nel controllo capillare del territorio, perché è così che traggono linfa attraverso le estorsioni e con quei soldi alimentano anche il loro welfare criminale.
Sono passati trent’anni, molti imprenditori hanno denunciato ma moltissimi ancora pagano. Abbiamo accumulato un’esperienza straordinaria sull’universo delle estorsioni: conosciamo le paure e i rischi che attanagliano la vita degli operatori economici, la forza ma anche i gravi limiti dello Stato, le difficoltà cui si va incontro dopo aver denunciato e le potenzialità della promozione del consumo critico che supporta gli imprenditori che denunciano. Ma le mafie non mollano e in molti territori la stragrande maggioranza ancora non sceglie la libertà e si lascia soggiogare dalle mafie.
È possibile fare un salto di qualità nella lotta alle estorsioni? Penso di sì. Penso che l’esempio di Libero Grassi, che è stato seguito da migliaia di imprenditori, può diventare adesso il motore di una scelta in grado di scatenare una guerra senza precedenti alle mafie delle estorsioni, contenendo al massimo i rischi e portando su questa strada milioni di piccoli e grandi esercenti commerciali, artigianali, turistici, aziende agricole e della pesca, insomma tutto il mondo produttivo, in modo da vincere definitivamente la sfida contro le mafie delle estorsioni.
È una scelta che comporta una decisione parlamentare e di Governo, condivisa e matura: bisogna rendere la denuncia obbligatoria. Ecco il perno della nuova scelta. Solo così l’operatore economico può fare spallucce di fronte alla richiesta estorsiva, “scaricando” sullo Stato una scelta che spersonalizza qualunque volontà, come si è fatto quando sui sequestri di persona si è neutralizzato questo lucrosissimo e drammatico affare delle mafie di allora bloccando il patrimonio delle famiglie dei rapiti.
A quel punto la convenienza si sposta automaticamente verso la denuncia, perché il meccanismo potrebbe essere il seguente: se denuncio, per tre anni non pago le tasse e lo Stato mi premia con un fondo perduto automatico, in base agli scaglioni del mio fatturato; se pago, invece, incappo in una sanzione amministrativa peggiore di qualunque misura penale, l’attività mi viene chiusa per sei mese e nei casi più gravi per un anno e, se rimango fermo nell’omertà, rischio anche sul piano penale perché mi può essere contestato il reato di favoreggiamento.
Se vogliamo, insomma, evitare che passino altri trent’anni dall’omicidio di Libero Grassi senza sferrare il colpo decisivo, dobbiamo andare al cuore del problema e agire di conseguenza.
Naturalmente altre tre questioni vanno a corredo di questa scelta principale:
1) Bisogna sburocratizzare ulteriormente il sostegno agli imprenditori che denunciano: troppi vincoli, troppi passaggi, troppi mesi prima che si arrivi al ristoro.
2) Chi rischia non può essere protetto per poco tempo e poi mollato e lasciato solo, dopo aver esposto l’operatore nei processi in testimonianze rischiosissime e coraggiosissime. Le mafie non dimenticano e lo Stato deve essere pertanto pronto a proteggere per sempre chi si è esposto.
3) La cultura della libertà di Libero Grassi deve diventare parte integrante dei corsi che si organizzano nelle camere di commercio per il rilascio della licenza necessaria per aprire l’attività. Oltre alla formazione tecnica, bisogna fornire anche questo tipo di formazione, che vale moltissimo per preparare l’imprenditore sia sul piano psicologico sia sul piano operativo a questo possibilissimo impatto.
Libero Grassi aveva compreso tutto e agì di conseguenza. Adesso spetta sia al mondo economico sia allo Stato dimostrare che anch’essi hanno capito tutto e sono pronti a fare quello che non si è mai fatto finora per battere così sul serio le mafie nel territorio, dove una vittoria di questo tipo avrebbe un valore di portata inestimabile
Attraverso una progettualità coerente e duratura, sviluppando il principio di trasparenza e condivisione e di interscambio, è possibile fare futuro come dimostra l’esperienza della locale cooperativa sociale “Il Geco”.
I quartieri-ghetto e i campi nomadi non dovrebbero esistere in una società civile, moderna ed evoluta. Il ghetto sancisce un’appartenenza e una condizione sociale che si imprime nella coscienza collettiva definendo di fatto una cittadinanza di serie A e una cittadinanza di serie B, i campi nomadi sanciscono addirittura una cittadinanza serie Z (zingari, con un carico dispregiativo). In pratica si stabilisce una classificazione sociale che spesso diventa razziale essendo che nei ghetti e nei campi nomadi vengono destinati stranieri e cittadini indesiserati come i rom e sinti. Il ghetto o il campo nomade diventa luogo per esseri umani declassificati e per le fascine sociali deboli con tutto ciò che questo comporta a livello sociale, culturale, economico e politico. Chi abita nel ghetto o nel campo nomadi viene etichettato e ha molte più difficoltà nell’inserimento scolastico, sociale ed economico. Spesso l’interazione delle fascie deboli avviene solo nel loro interno creando di fatto un circolo vizioso e fenomeni sociali deviati. Da parte delle istituzioni gli interventi sono quasi sempre a carattere assistenziale che influisce molto anche a livello morale e psicologico con conseguenze sul piano dell’autostima e della rassegnazione. La disillusione diventa così nemica della società civile. È facile nel ghetto o nel campo nomadi acquisire la sindrome da ghetto che favorisce devianza, bullismo, violenza. In questi non luoghi si creano economie di sopravvivenza a discapito della società civile.
Ogni essere umano avrebbe diritto ad un alloggio non etichettato. Andrebbero incoraggiati lo studio e la formazione, le attività ludiche e sportive, gli eventi artistici e culturali, ma soprattutto andrebbero sostenute e agevolate il lavoro e le attività economiche. Tutto ciò eviterebbe che il ghetto o il campo nomadi diventasse un ricettacolo di attività illegali da cui è difficilissimo sottrarsi.
Il ghetto, e ancor di più il campo nomadi, sempre più giustifica una costante attività di supremazia sui più deboli a tutela esclusiva dei più forti e delle classi più abbienti, facilitando lo sciacallaggio attraverso il becero assistenzialismo. In sostanza il ghetto e il campo nomadi sono espressioni di egoismo allo stato puro e prevaricazione di ogni diritto minimo di sicurezza e di sopravvivenza, espressione di arroganza e di prepotenza che inevitabilmente viene restituita dalle vittime alla società civile come un fatale boomerang. Il ghetto e sempre più il campo nomadi sono i non luoghi o pattumiere sociali che stabiliscono la linea di confine fra la civiltà e l’esclusione.
Il ghetto e il campo nomadi imprimono una disparità sociale da superare e sottolineano un limite culturale prima che socio-politico. Evidenziano di fatto una situazione o condizione tale da circoscrivere e limitare lo sviluppo dell’attività delle persone o gruppi specifici e ne dequalifica l’incidenza sociale.
I campi nomadi sono forme orrende di segregazione razziale indegni di un Paese civile, espressione di un classismo antidemocratico e antisociale che andrebbero evitati e superati a vantaggio di tutta la collettività. Si spendono miliardi e miliardi di euro per assurdi armamenti ma non si spende abbastanza o si risparmia sulla pelle di cittadini inermi a cui arrivano solo progetti fasulli e inutili nonostante i milioni di euro sperperati. Le leggi razziali, abrogate nella legislazione, sembrano essere ancora in vigore nella testa e nel cuore di troppi amministratori e di tanti politici corrotti. Sono soprattutto rom e sinti a pagarne le conseguenze sotto lo sguardo indifferente dell’opinione pubblica che viene lasciata nella più completa disinformazione.
I politici e le istituzioni sono al corrente ma fanno orecchie da mercanti.
Eppure con poco si potrebbe fare tanto a vantaggio di tutti, purtroppo manca una reale volontà politica e istituzionale per superare questa situazione.
Anche durante la pandemia il Volontariato ha dato il meglio di sé. Ha rischiato e si è messo in gioco, ha pagato e si è rivelato la più straordinaria risorsa sociale.
Si può solo applaudire? Basta una pacca sulle spalle e via?
Cara Elly,
ti scrivo questa lettera in forma pubblica, aperta, perché rileggendola mi sono reso conto che, mentre mi rivolgo a te, so che le persone che vorrei convincere sono altre: molte anche nella mia cerchia.
Sono anch’io tra i tanti che hanno molto apprezzato la tua diretta FB. L’approccio che hai usato è quello giusto: “troviamoci insieme”, non “andiamo dove vi dico io”. Non hai disegnato il punto di arrivo ma l’identikit dei compagni di viaggio. Hai fatto benissimo a farti avanti: siamo in un momento in cui tutti e tutte dovrebbero farlo. Chiunque abbia a cuore le sorti di questo paese … e della sinistra che sola può salvarlo (magari non fosse così, non è il solito, altezzoso senso di superiorità della sinistra ma un prender partito, con la testa oltre che con il cuore).
Certamente, dobbiamo prendere atto che molti ancora insistono a cullarsi nella speranza che si faccia avanti qualcuno in grado di guidarci verso la meta agognata. E che molti si sentono legati a un partito con un senso di appartenenza che si spiega con l’idea che solo in quella comunità si possa trovare la soluzione. Però ci stiamo accorgendo che sono sempre più numerose le persone che, pur restando iscritte a uno dei numerosi partiti in cui è frammentato il “popolo di sinistra”, pensano che ci si debba aprire proprio come tu inviti a fare.
Per queste persone, del resto, il partito non offre più nessun ambito di impegno di un qualche interesse e preferiscono dedicarsi ad attività con forte valenza politica nel vasto mondo del “sociale organizzato”. Dove però è prevalso finora il rifiuto di muovere anche solo un dito a favore di una costruzione politica e si preferisce restare confinati nell’ambito di un rapporto puramente negoziale con soggetti politici considerati del tutto estranei. La delusione è comprensibile, per una politica ridotta a mero esercizio del potere per esclusivo interesse personale: il guaio è che sfocia nella delega, nella rinuncia, infine nell’indifferenza. Ma ho la netta sensazione che questa fase di grandi sommovimenti, in cui “nulla sarà più come prima”, stia incoraggiando tentativi più coraggiosi e più aperti anche in questa vasta area che sarà decisiva: trovo di grande interesse, in questo senso, l’iniziativa “per una società della cura” e il Recovery PlanET a cui ora è approdata.
Detto tutto questo – vengo al dunque – si pone secondo me un problema pregiudiziale, dirimente. Si deve andare oltre i confini delle formazioni esistenti ma non sembra vi siano le condizioni perché nessuna di queste possa mettersi in gioco fino a rinunciare alla propria esistenza (del resto sono parte di un sistema che le ha infine configurate come chiuse e non scalabili, come ha dimostrato anche il tentativo in cui siamo stati impegnati entrambi dopo essere usciti dal PD).
Al momento non possiamo sapere con quali regole si giocherà la sfida che vogliamo vincere (perché hai ragione sacrosanta quando poni questo come orizzonte prossimo e non qualcosa in meno). Non sappiamo quale sarà la soglia di ingresso, se saranno premiate le coalizioni, se ci saranno collegi uninominali, e così via. Ma una condizione deve essere soddisfatta indipendentemente da queste incognite: il popolo con cui dovremo ritrovarci deve poter essere realmente sovrano.
Se non sarà lo statuto di un partito (l’unico segnale di cambiamento in questa direzione viene dal lavoro che i 5S stanno assegnando a Conte, tutto da scoprire e con cui confrontarsi) dovrà essere lo statuto di un’area plurale che si dà una regola comune di democrazia garantita a un popolo unico. Ricorderai che questa delle regole e dei poteri è un po’ una mia fissazione, il tempo mi ha rafforzato in questo “vizio” e mi ha convinto che questo passaggio è ineludibile. E continuo testardamente a pensare che non sia affatto insormontabile.
Parliamone, alimentiamo questa ambizione. Troviamoci, come dici tu, e proviamo a ritrovare tante e tanti che sappiamo pensarla come noi, ciascuno per dove può arrivare. E tu puoi (continuare a) fare moltissimo.
Con stima ed affetto.