PIKETTY E LA SERRATA CRITICA ALL’ INARRESTABILE AVANZATA DELLE DISEGUAGLIANZE ECONOMICHE

di Michele BLANCO

Il francese Thomas Piketty è un economista tra i più conosciuti e letti al mondo: il suo Il capitale nel XXI secolo, del 2003, è stato tradotto in 40 lingue e fino ad oggi ha venduto milioni di copie. Tanto che ha il libro è stato fonte di ispirazione per movimenti come Occupy Wall Street, riuscendo a influenzare i programmi di partiti come il Labour di Jeremy Corbyn e, ora, perfino il Fondo Monetario e la Banca Mondiale.

Il tema principale affrontato è la disuguaglianza economica – tendenza spaventosamente crescente in questi decenni.

Il capitale nel ventunesimo secolo, basato sull’analisi dei fatti, che trattava essenzialmente di temi economici, partiva proprio dal dato storico dell’aumento della disuguaglianza, considerato evidente sulla base della grande quantità di ricerche e dati che confermano questa triste tendenza. E non forniva indicazioni di valore riguardo alle riforme che potrebbero ridurre la disuguaglianza senza sacrificare il benessere dei cittadini. Anche se le interviste e i numerosi articoli scritti da Piketty su riviste e quotidiani dopo l’uscita del libro hanno evidenziato l’orientamento politico dell’autore. Inoltre, spiega Piketty, la «lezione complessiva della […] ricerca è che il processo dinamico di un’economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a se stesso, alimenta […] potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi, per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano».

Piketty evidenzia come l’evoluzione della disuguaglianza dei redditi, della ricchezza, e del rapporto del capitale sul reddito, nei paesi sviluppati, segua una curva a forma di U e come i livelli di disuguaglianza raggiunti all’inizio del XXI secolo siano simili a quelli della Belle Époque. Questi risultati mettono in discussione la curva di Kuznets, formulata nel 1950 da Simon Kuznets, che sottende l’ipotesi secondo cui lo sviluppo economico sarebbe accompagnato, in modo meccanico, da un calo nella disparità di reddito. La realtà dei fatti, al contrario, dimostra che il capitalismo è caratterizzato da potenti forze intrinseche di divergenza, basate sulla disuguaglianza r > g (rendimento sul capitale > tasso di crescita economica). In una società che cresce poco, la ricchezza passata acquisisce una crescente importanza e tende naturalmente all’accumulo nelle mani di pochi. Nel corso del 900 ci fu un’eccezione storica, nella quale per la prima volta nella storia del capitalismo la disuguaglianza fu invertita in r < g.  Di conseguenza, le ricchezze via via accumulate perdevano importanza molto velocemente mano a mano che l’industrializzazione aumentava vertiginosamente la produttività e quindi l’ammontare di nuove ricchezze prodotte.

L’autore suggerisce diverse misure politiche per limitare l’aumento della disuguaglianza tra cui, in particolare, la creazione di una tassa globale sul capitale fortemente progressiva, accompagnata da una maggiore trasparenza finanziaria mondiale. Negli ultimi lavori, Capitale e ideologia e Una breve storia dell’uguaglianza, Piketty va ben oltre l’economia, passa ad analizzare l’analisi delle ideologie del potere e della storia economica. Egli ci spiega, come “La disuguaglianza non è economica o tecnologica: è ideologica e politica”. In Una breve storia dell’uguaglianza si concentra «sulle questioni di contenuto, in particolare sulla riflessione relativa al regime di proprietà, al sistema fiscale, sociale e dell’istruzione e ai confini: vale a dire sulle istituzioni sociali, fiscali e politiche che potrebbero contribuire alla creazione di una società giusta». Il lavoro è fornitissimo di dati economici e sociali e corredato da una scrupolosa indagine storica, che parte dall’antichità, analizzando in particolare le forme di disuguaglianza, e arriva ai giorni nostri.

Piketty spiega che, il mercato e la concorrenza, profitti e salari, capitale e debito, lavoratori qualificati e non qualificati, lavoratori locali e stranieri, i paradisi fiscali e la competitività, non esistono in quanto tali esse sono costruzioni sociali e storiche che dipendono interamente dal sistema giuridico, fiscale, politico, educativo e sociale prescelto dalle classi al potere e dalle categorie di pensiero e giustificative che si decidono di adottare. Come afferma da sempre la tradizione marxista, e non solo essa, da quando esiste l’agricoltura e non siamo più cacciatori-raccoglitori, ogni società umana non fa altro che giustificare le sue disuguaglianze: bisogna trovarne le giustificazioni, altrimenti l’intero edificio politico e sociale rischia inesorabilmente di crollare. Ogni epoca produce quindi discorsi e ideologie che non fanno altro che legittimare la disuguaglianza esistente e chi detiene il potere non fa altro che cercare di descriverla come una cosa naturale. Le regole economiche, sociali e politiche che strutturano l’insieme delle società sono costruite dalle classi al potere per giustificare e implementare, quanto più possibile, i loro privilegi. Nelle società contemporanee, la narrazione dominante è quella “meritocratica” già analizzata da Michael Young negli anni Cinquanta in un libro capito a rovescio (Meritocracy era una satira, ma recentemente è stato preso come un manuale per far carriera).

Piketty riassume così lo storytelling del neoliberismo: la disuguaglianza moderna è giusta, perché deriva da un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà, e dove tutti beneficiano spontaneamente dell’accumulazione dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili. Ma in modo preciso Piketty ribatte che: «Sotto la copertura del “merito” e delle “capacità” personali, vengono in realtà perpetrati i privilegi sociali, perché i gruppi svantaggiati non hanno i codici e la strumentazione dialettica con cui viene riconosciuto il merito. La popolazione studentesca è aumentata moltissimo […] Ma la classe operaia ne resta quasi completamente esclusa». Il caso limite è quello dei braccianti agricoli. Secondo le statistiche, pressoché identiche in tutti gli stati occidentali, meno dell’1% per cento dei figli di questi lavoratori accede all’istruzione universitaria, al confronto del 70% per cento dei figli degli industriali e all’80% dei figli dei professionisti.

Insomma il «privilegio culturale e simbolico è più subdolo, perché si presenta come il risultato di un processo liberamente scelto in cui tutti, teoricamente, hanno le stesse possibilità». L’economista francese sottolinea che questa visione, in teoria, si colloca all’estremo opposto rispetto ai meccanismi della disuguaglianza nelle società premoderne, che si basavano su rigide, arbitrarie e spesso dispotiche disparità di status. Il problema, egli afferma, è che questa grande narrazione proprietaria e meritocratica ha avuto la sua prima costruzione nell’Ottocento, dopo il crollo delle società dell’Ancien Régime, e una conferma ancora più radicale e diffusa a livello mondiale dopo la caduta del comunismo sovietico e il trionfo dell’”ipercapitalismo”, ma ogni giorno di più ci appare sempre più fragile, basti pensare alle ricorrenti crisi economico-finanziarie, e frutto di una invenzione non basata sui fatti. In Capitale e ideologia troviamo un allargamento dell’analisi verso culture diverse da quelle dei tradizionali paesi occidentali. Si studiano tutte le società mondiali, con metodo che trae spunto dalla solida base economico-statistica di studi sulla proprietà e sul reddito, che arriva ai giorni nostri partendo il più lontano nella storia, da dove è stato possibile reperire i dati. La scelta del titolo Capitale e ideologia deriva dall’importanza che Piketty attribuisce agli argomenti ideologici con i quali le diverse società inegualitarie hanno giustificato la propria struttura e ne hanno ipostatizzato l’inevitabile “naturalità”.

Piketty non nasconde il fondamentale obiettivo culturale e politico della propria ricerca: fornire degli strumenti di interpretazione e di azione al formarsi di quella che egli chiama una coalizione egualitaria, che si ponga l’obiettivo di superare il capitalismo verso una società sicuramente più giusta per il XXI secolo, basata sul socialismo democratico partecipativo.

Autore

  • Michele BLANCO

    Michele BLANCO. Dottore di ricerca in “Diritti dell’uomo e Diritti fondamentali. Teorie, etiche e simboliche della cittadinanza” presso la facoltà di Giurisprudenza della Seconda Università di Napoli. Tra i suoi saggi più rilevanti si ricordano: “La vera ragione dei diritti umani e la democrazia partecipativa come premessa al reciproco riconoscimento tra i popoli” (2006), “Democrazia deliberativa ed opinione pubblica emancipata” (2008), “Cosmopolitismo e diritti fondamentali” (2008), “Diritti e diseguaglianze. La crisi dello stato nazionale e al contempo dello stato sociale” (2017), “Nota critica a Thomas Piketty, Capitale e ideologia” (2021) “Nota critica a Katharina Pistor , Il codice del capitale. Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza”, 2021. “Recensione critica a Thomas Piketty, Una breve storia dell’uguaglianza”  2021.

    Michele BLANCO micheleblanco26@yahoo.it

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