Parlare di giovani e politica significa guardare all’oggi senza rinnegare la speranza. Significa riconoscere che una generazione sente il peso del presente, ma vuole progettare il futuro. E che se restiamo incapaci di tradurre le loro aspirazioni in politica concreta, sprechiamo una risorsa preziosa.
Negli ultimi dieci anni, la partecipazione elettorale nella fascia 18-30 anni ha mostrato tassi inferiori rispetto alle fasce più adulte, ma non un disinteresse totale: piuttosto, una diffidenza strutturata. Secondo il rapporto Giovani, democrazia e partecipazione politica dell’Osservatorio Giovani-Istituto Toniolo, emerge che molti giovani vedono la politica distante, poco capace di parlare ai loro problemi reali. (rapportogiovani.it)
Un confronto: alle politiche del 2022, la partecipazione dei giovani 18-34 anni è stata stimata intorno al 57,3 %, contro valori simili nelle fasce 35-49 anni e oltre, ma con dinamiche di astensione maggiori nei più giovani. (Wikipedia) In concreto: tra 31 e 50 anni, si registra una maggiore stabilità nel voto; tra 51 e 70 anni i tassi sono spesso più elevati (anche per ragioni socioeconomiche, radicamento, presenza nelle urne).
Alcuni studi mostrano che la differenza non è enorme nelle elezioni politiche generali, ma diventa significativa se si guarda agli under-25: prima delle politiche 2018, un giovane su due tra gli under-25 avrebbe scelto di non votare. (Demopolis).
Allora, cosa ci dicono questi numeri? Che molti giovani non votano, non perché non abbiano idee o passione, ma perché non vedono un’offerta politica che li rappresenti davvero. Quando la politica parla solo con linguaggio vecchio, con discorsi lontani dalle loro esigenze, con gerarchie immutabili, il risultato è che i giovani restano fuori.
Eppure la questione del genocidio palestinese ha spalancato spazi di mobilitazione giovanile. Le piazze si sono riempite di studenti e under 30 che hanno manifestato solidarietà, capacità di indignarsi e di esigere: «non è normale che si muoia così». In quel momento, molti hanno ritrovato la percezione che la politica è anche un orizzonte di senso, non solo un meccanismo da cui sentirsi esclusi.
Quella sensibilità – dolorosa, forte – potrebbe essere amplificata e trasposta in altri ambiti: nei temi dell’inclusione sociale, nei diritti LGBTQ, nella politica industriale (la delocalizzazione selvaggia che svuota territori e sfrutta lavoratori), nella cura delle aree interne che si spopolano. Quella stessa attitudine a non restare muti quando si uccidono civili può diventare attivismo stabile anche su questioni più “quotidiane”.
Ma serve una politica che sappia ascoltare e coinvolgere. Non basta lamentarsi che “i giovani non votano” — occorre cambiare la chiave di lettura: pensare le politiche da giovani, con linguaggio, pratiche, strumenti loro congeniali. Voti digitali? Consultazioni nelle scuole? Proposte politiche co-costruite? Orizzonti territoriali vicini alle loro vite? Tutte queste sono strade da esplorare con coraggio.
Va detto, però: non è solo colpa della politica. Spesso i giovani non fanno nulla per appassionarsi. Restano inchiodati nel quotidiano, nelle paure, nei meccanismi che scoraggiano. Ma è un circolo vizioso: se non cercano vie per partecipare, la politica non impara a includerli; se la politica non li include, loro non vedono motivo per entrare.
E allora la speranza è che rompano quel circolo. Che sperimentino la partecipazione, che si avvicinino anche con piccoli atti: associazioni, movimenti, campagne locali, consigli di quartiere, leghe studentesche. Che si misurino con il fare concreto: proporre, protestare, costruire.
In questi anni difficili e con lo spettro di un conflitto mondiale che aleggia sulle nostre teste, ai giovani serve coraggio — quello di non accettare l’ovvio, quello di rimettersi in gioco, quello di credere che cambiare le cose, se non vanno bene, è non solo possibile, ma urgente.
